Quello delle criptovalute è un universo assai variegato. C’è Bitcoin, la primogenita e senza padroni che da sola vale più del 50% dell’intero mercato e ai prezzi attuali circa 900 miliardi di dollari, e poi ve ne sono tante altre (migliaia) che nella maggior parte dei casi non hanno alcun valore fondamentale, né caso d’uso, ma che confondono spesso gli investitori. In questo universo controverso si stanno però ritagliando un ruolo sempre più significativo le stablecoin, quei token che mirano a riprodurre e a mantenere in chiave digitale (e all’interno di una blockchain) il valore delle valute tradizionali (come dollaro ed euro) o in alcuni casi di materie prime (oro).
Il ruolo
I casi d’uso a cui rispondono sono in questo momento storico principalmente due: offrono ai cripto-investitori l’opportunità di scampare alla volatilità di Bitcoin e di altre criptovalute pur rimanendo all’interno di wallet digitali (consentono ad esempio la conversione di Bitcoin in dollari digitali per un investitore che in un certo momento voglia evitare di subire forti oscillazioni di prezzo di Bitcoin). Il secondo caso d’uso riguarda l’inclusività finanziaria. Ci sono numerosi Paesi nel mondo i cui cittadini hanno la doppia sfortuna di non avere accesso a un conto corrente bancario e di vivere in un contesto economico ad elevata inflazione. Per questi cittadini la possibilità di convertire le valute locali traballanti in stablecoin che replicano l’andamento di valute forti (come dollaro ed euro) si sta rivelando un’opportunità in più. Ed è per questo che le stablecoin vedono un utilizzo crescente in Libano, Turchia, Argentina, Venezuela. Paesi dove l’inflazione viaggia a doppia, se non a tripla, cifra. Ma le stablecoin sono davvero così “stable”? Hanno le caratteristiche per proteggere l’investitore? La storia ci dice che non è sempre così: nel maggio del 2022 la stablecoin Ust del protocollo Terra/Luna fallì dal giorno alla notte causando una perdita miliardaria per i numerosi cripto-investitori che avevano puntato su questa forma alternativa di “dollaro digitale”.
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L’esame
Al tema delle stablecoin si è interessata S&P global ratings, la nota agenzia che nel 2011 tolse la Tripla A al debito sovrano degli Stati Uniti. La stessa agenzia ha recentemente pubblicato lo “Stablecoin sustainability assessment (Ssa)”, un lavoro che mira a valutare la capacità di una stablecoin di mantenere un valore stabile rispetto a una valuta fiat tradizionale. Il lavoro include le valutazioni delle otto maggiori stablecoin: Dai, FdUsd, Frax, Gusd, Usdp, Usdt, Tusd e Usdc.
La griglia di valutazione va da 1 (“very strong”, molto forte) a 5 (weak, debole) in base alla capacità di mantenere il proprio ancoraggio a una valuta fiat.
Come mai S&P global ratings ha deciso di entrare nel mercato della valutazione delle stablecoin? «Come società di rating a noi interessa sapere sempre cosa succede nel mondo della finanza, capire le nuove tecnologie e poter dare la nostra opinione sui rischi e le oppurtunità che queste novità portano – spiega Lapo Guadagnuolo, Head of Centre of Excellence Methodologies a livello mondiale di S&P -. Da due anni ci siamo interessati molto al mondo della defi (finanza decentralizzata, ndr) e le stablecoin sono indiscutibilmente un elemento fondamentale del mondo defi, agendo come ponte tra la finanza tradizionale. Dal nostro punto di vista è interessante studiarle per dare un’idea agli investitori di quelle che sono le più affidabili».